Secondo l’ ultimo rapporto del Nuvec, per un’opera medio-grande sono necessari 15 anni e 9 mesi, più della metà se ne va nell’inerzia burocratica fra una fase e l’altra.
Un esempio recente di lentezza può essere il viadotto Himera sull’autostrada Palermo-Catania,incredibilmente crollato il 10 aprile 2015 seppur e per fortuna, con conseguenze nettamente minori rispetto a quelle del ponte Morandi di Genova. Dopo ben 7 mesi vi è stato il mero ripristino della viabilità locale e dopo quasi tre anni è stata aggiudicata la gara per l’appalto di ricostruzione: il 16 febbraio 2018.
Un lungo arco temporale che vedrà la fine solo al completamento effettivo dell’opera, ma che già conferma come già dalla fase iniziale, i tempi di risposta della burocrazia italiana
verso la realizzazione delle opere pubbliche restino lunghissimi. Tempi che nessuno si augura di rivedere a Genova per la ricostruzione dopo il crollo del ponte Morandi.
Certo è che una riduzione di tempi per la rinascita genovese sarà possibile solo tenendo i riflettori accesi, facendo pressing, denunciando ritardi. Perché la situazione italiana viene da decenni di rallentatore sul fronte delle infrastrutture e del territorio.
La pubblica amministrazione italiana, e il mondo delle opere pubbliche in particolare, ha totalmente perso il senso dell’importanza della «variabile tempo», completamente incartata in una visione formalista, attraversata da riforme paralizzanti e scioperi di firme, da un regime di responsabilità incerto (come dimostra anche il caso del Ponte Morandi), da una capacità tecnica di stare sulle cose debolissima.
Senza la consapevolezza che la «variabile tempo» è decisiva per l’efficienza del sistema-Italia, il risultato è la vittoria della burocrazia lenta. I tempi medi per le opere medio-grandi (sopra i 100 milioni) sono noti: 15 anni e 8 mesi, in leggera crescita rispetto al precedente studio del 2014.
Ma la cosa più interessante e clamorosa è l’ammissione che il 45,7% dei tempi (quindi nel caso delle grandi opere poco più di 7 anni) sono spesi per la «fase effettiva» (quindi progettazione, gare e lavori) mentre il 54,3% dei tempi (quindi 8 anni e mezzo) sono «tempi di attraversamento», che sono i tempi «dati dall’intervallo temporale che intercorre tra la fine di una fase e l’inizio della fase successiva».
Burocrazia pura, quindi. O anche interminabili procedimenti per l’approvazione di un’opera.
Ovviamente questi tempi sono ridotti se si parla di opere di dimensione inferiore, ma la proporzione resta quella detta.
Anche le imprese soffrono di tempi inadeguati rispetto alle esigenze di rilancio. Anche qui «tempi di attraversamento» si può dire, spesso legati alle infrastrutture di contesto. Occorrono dieci mesi almeno per far partire i progetti nelle aree di crisi complessa. Si tratta di aree che riguardano specifici territori soggetti a recessione economica e perdita occupazionale di rilevanza nazionale.
Ne esistono 17, di cui finora 11 già oggetto di intervento. In un’audizione al Senato l’ amministratore delegato di Invitalia, il soggetto attuatore, ha spiegato che il primo passaggio è l’istanza di riconoscimento di crisi industriale con una delibera della Regione. Poi il ministero dello Sviluppo riconosce la crisi e nomina un gruppo di coordinamento e controllo. Successivamente Invitalia formula la prima proposta di progetto di riconversione industriale e pubblica la call per le manifestazioni di interesse ad investire. Infine il Gruppo di coordinamento approva il Piano e si arriva all’accordo di programma. «Tra l’istanza della Regione e l’accordo trascorrono non meno di 10 mesi, di cui solo uno è impiegato da Invitalia per la proposta del progetto». Allora, qual è il “tappo”? Le amministrazioni non sempre funzionali all’attuazione delle azioni finali.
Mancano modalità straordinarie di intervento da parte del ministero delle Infrastrutture e trasporti (a differenza di Mise, Ambiente e Lavoro) e questo molto spesso non ha permesso di fornire risposte ai fabbisogni infrastrutturali delle aree di crisi. L’accordo di programma è stato già firmato per le aree di Taranto, Piombino, Trieste, Rieti, area Antonio Merloni, Termini Imerese, Livorno, Venafro-Campochiaro-Bojano, Val Vibrata-Valle del Tronto-Piceno, Savona, Terni-Narni. Ancora indietro invece Venezia, Gela, Frosinone, Portovesme, Porto Torres, aree della Campania.
In totale, su 690 milioni di agevolazioni a valere sulla legge 181/89, le risorse impegnate sono il 36%. Per ovviare a ciò diverse possono essere le proposte di revisione normativa, a partire dall’introduzione di un gestore unico per l’attuazione di tali tipi di interventi.